Tuesday, October 31, 2017

Fantastico, occulto e magia in William Shakespeare. Parte 1: Un viaggio attraverso la magia rinascimentale.

Prospero doing magic: The Tempest.
Artwork by Edmund Spenser.
 Il seguente scritto parte da un’analisi dell’origine della figura del mago nell’Inghilterra del XVI secolo per arrivare allo studio del personaggio di Prospero nel dramma shakespeariano The Tempest. La magia in età elisabettiana e giacomiana era considerata in maniera controversa e chi la praticava poteva essere tacciato di santità o di essere in combutta con Satana, ma in ogni caso restava un personaggio misterioso, ai limiti dell’eticamente accettabile. La definizione stessa del termine poneva dei problemi per gli elisabettiani e molto spesso non ci si preoccupava molto di fare distinzioni di sorta, per cui mago poteva esserlo l’indovino ciarlatano, l’astrologo, l’alchimista, ma anche il frate o il medico. In effetti, da una prospettiva moderna, abituata alla severa distinzione di professioni e mestieri e alla categorizzazione di ruoli sociali, tale fumosa concezione può risultare snervante. Lo studioso odierno che rimanga affascinato da studi alchemici e da nebulose pietre filosofali concepite in antichi laboratori stracolmi di ribollenti alambicchi e formule magiche scritte in lingue occulte deve, volente o nolente, arrendersi di fronte alla disarmante poca scientificità con cui gli elisabettiani, filosofi o poeti che fossero, consideravano la realtà. Tale studioso può però tentare, se non una distinzione netta, almeno di rintracciare le diverse influenze che formarono la figura del Prospero shakespeariano. Proprio come un alchimista egli (o ella) può lavorare la materia grezza, per distillarne i componenti che la costituiscono e rintracciarne le origini, arrivando fino agli elementi primi. Un esperimento che vale la pena tentare. Girando e oscillando delicatamente l’alambicco contenente la mistura, una miriade di domande sembrano sprigionarsi dal liquido stesso ed entrare rimbombando nella testa del giovane apprendista mago: chi erano i maghi? C’era forse una concezione filosofica dietro la magia rinascimentale? E tale concezione nasceva in Inghilterra o in un altro Paese? Quali erano le reazioni nei confronti della magia? Colto da entusiasmo il giovane alchimista non può attendere oltre: accende la fiammella del distillatore, dispone gli strumenti ordinatamente sul tavolo da lavoro e comincia l’esperimento.


Alchimisti durante la distillazione. Liber de arte Distillandi by Hieronymus Brunschwig, 1512. Public Domain; courtesy of Wikimedia and the Chemical Heritage Foundation.


Da una prima distillazione riesce a ricavare un miscuglio poco chiaro, torbido: il primo componente distinguibile è però facilmente individuabile; si tratta della filosofia dei neoplatonici Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola. Le loro teorie intrise di sincretismo religioso e filosofico diedero vita alla figura del magus, il sapiente che, avendo purificato la propria anima, ha ricevuto in dono da Dio il potere di operare sul mondo sfruttando le potenze superiori.  Il mago neoplatonico è erede del negromante e dell’esorcista medievali anche se si differenzia dai propri antenati in maniera netta: molto più raffinato e con un più consistente bagaglio filosofico alle spalle, il mago rinascimentale sente su di sé il peso di un dovere riformatore, quello di redimere il mondo con la propria arte magica. La sua vocazione fonde insieme misticismo e magia, perchè il percorso del mago è anche un percorso ascetico, di unione con Dio. Il suo progenitore, il mago medievale, è costretto a nascondersi, a praticare le sue arti in segreto, e molto spesso i suoi riti sono descritti come barbarici e rozzi: egli è negromante (prepara pozioni per risvegliare i morti) o esorcista (usa i suoi poteri per operare orrende evocazioni demoniache), non è mai dotto né tantomeno collega la sua magia a una qualche vocazione mistica. È un perseguitato e un reietto, e la sua arte non conosce fortuna durante i Secoli Bui. Tuttavia, qualcosa di lui rimane nel mago rinascimentale: lungi dal rinnegare la filosofia medievale, Ficino e Pico la ritengono un filo conduttore della prisca theologia, l’antica conoscenza esoterica dei misteri di Dio, dalle sue origini negli scritti dell’egiziano Ermete Trismegisto, nella filosofia gnostica e platonica (e plotinica) al cristianesimo dei loro anni. In poche parole, entrambi vedono la filosofia dei Padri della Chiesa, San Tommaso d’Aquino e Sant’Agostino in primis, confermare le proprie teorie neoplatoniche. Per fare un esempio, Ficino sostiene nel suo De vita Coelitus Comparanda (“del modo di ottenere la forza delle stelle”), sorta di manuale magico-medico, che anche San Tommaso d’Aquino, come lui, approvava l’uso a scopo terapeutico di oggetti magici come i talismani. Il neoplatonico rinascimentale è quindi prima di tutto un sincretista, perché crede che tutte le religioni e le filosofie contengano principi comuni e che chi voglia ricercare la verità debba avvicinarsi ad ognuna di esse senza timore. L’unica eccezione, almeno per quanto riguarda Ficino, è costituita dall’aristotelismo, perché ripone poca fiducia nelle possibilità umane: l’uomo per i neoplatonici è simile a Dio, perché in lui alberga lo stesso potenziale creativo; la sua arte è espressione della sua natura divina e la magia è la suprema delle arti, perché mette in contatto i due principi di realtà, quello mortale e quello immortale. Le opere umane sono quindi testimoni della sua grandezza e possono superare la natura in bellezza. Al contrario, l’aristotelismo vede l’arte come imitazione della realtà e l’arte della natura prevalere sempre su quella dell’uomo.
Accademia Neoplatonica di Firenze.

La polemica anti-aristotelica fu al centro delle opere di Ficino, mentre sembra fosse di poco interesse per Pico, che concentrò la propria attenzione più su cosa le filosofie avessero in comune che su quali fossero le loro differenze. Ma questo probabilmente non deve stupire, perché Marsilio Ficino nacque una trentina d’anni prima di Pico della Mirandola, fu il fondatore della Nuova Accademia di studi platonici e dovette quindi affrontare il nodo della fondamentale contrapposizione Platonismo-Aristotelismo: la sua opera punta, almeno ai primordi, a scardinare i pregiudizi degli aristotelici nei confronti delle nuove teorie e i suoi primi studi di filosofia greca classica, compiuti sotto la guida di un aristotelicissimo maestro, tendono a ritornare ostinatamente su Epicuro, Lucrezio e, naturalmente, Platone. La situazione si fa talmente scandalosa che l’allora arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi si vede obbligato a spedire il giovane Ficino a Bologna, per studiare medicina e la filosofia di san Tommaso d’Aquino. Inutile dire che la premura non sortisce gli effetti sperati: al suo ritorno nella natia Firenze un entusiasta Cosimo I Medici chiede a Marsilio di fondare una scuola dove si traducano e si studino le opere di Platone e dei platonici. È così che nel 1462 nasce nella villa di Careggi la Nuova Accademia Platonica: qui Ficino comincia la traduzione dal greco dei quattordici volumi del Corpus Hermeticum, opera attribuita inizialmente all’antica sapienza egizia ma in realtà appartenente alla corrente di pensiero pagana dell’epoca primo-Cristiana (II secolo d. C. circa). Gli scritti erano stati recuperati in Macedonia da un monaco, tale Leonardo da Pistoia, che faceva ricerche di studi di filosofia greca per conto dei Medici. Nel Corpus Ficino vede l’origine di un sapere antico, una prisca theologia e una pia philosophia: Ermete Trismegisto fu il primo a studiare il mistero di Dio, fondando la disciplina teologica. A lui seguirono Orfeo, Pitagora, Aglaofemo e Filolao, in una tradizione di filosofia che ebbe il suo culmine con Platone. La loro sapienza conteneva la rivelazione della Trinità, un miracolo che si è realizzato pienamente con la venuta di Cristo e la nascita della Chiesa. Per questo sia il pensiero di Ficino che quello di Pico sono caratterizzati da un così fiducioso sincretismo religioso e filosofico: non c’è conflitto fra Cristianesimo e Pitagorismo, o fra Cristianesimo e Gnosticismo, perché il messaggio di verità è sempre lo stesso; allora lo scopo dei nuovi platonici del Rinascimento è quello di raccogliere la tradizione, tradurre gli scritti, studiarli, commentarli per far rivivere la rivelazione. Ed è proprio quello che Marsilio Ficino fa: dopo il Corpus la sua attenzione si concentra sui dialoghi di Platone, che traduce e commenta negli anni dal 1463 al 1468 (da questo lavoro così corposo nasce la sua Theologia Platonica de immortalitate animarum, opera che si riallaccia al concetto di prisca theologia) e alle Enneadi di Plotino, tradotte nel 1484, per poi rivolgersi a Giamblico, Proclo, Teofrasto e molti altri. Ficino compie un lavoro di traduzione immenso che spalanca le porte della filosofia dei greci agli studiosi di tutta Europa, creando un ponte fra antichità ed era moderna. Scrive infine i Tre Libri sulla Vita (De Vita Libri Tres, 1489), opera che gli procura accuse di magia (pochi anni più tardi, nel 1495, Ficino è infatti costretto a difendersi con una Apologia) e un commento a san Paolo che però lascia incompiuto a causa della sua morte nel 1499.

Il brillante enfant prodige Giovanni Pico della Mirandola morì alla prematura età di 31 anni.
Giovanni Pico della Mirandola. Galleria degli Uffizi.
Accanto alla sua figura si muove l’altro punto cardine del Rinascimento: sebbene sia molto più giovane, Giovanni Pico della Mirandola è dotato di un’intelligenza fuori del comune e a soli ventiquattro anni scrive la sua Oratio De Hominis Dignitate e novecento Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae, in vista di un congresso filosofico universale che non si svolse mai. Se Ficino crea le basi del Rinascimento grazie al suo lavoro di traduttore, Pico lo fa dal punto di vista filosofico, proponendo una nuova concezione dell’umanità, caratterizzata dal più assoluto libero arbitrio, in grado di elevarsi alle più alte sfere o di abbrutirsi nella più corrotta delle nature. Pico è un genio, dotato di una memoria che nel corso dei secoli è diventata proverbiale e di una profonda conoscenza linguistica (conosceva perfettamente latino, greco, francese, arabo, aramaico ed ebraico) e la sua morte prematura a soli trentuno anni ha impedito il pieno sviluppo quella che in potenza era una delle menti più brillanti del suo tempo.
Dopo questa breve introduzione al contesto filosofico e storico in cui nasce il magus rinascimentale sarà bene dare uno sguardo più approfondito agli scritti dei nostri due filosofi che trattano direttamente di magia. Questi sono la Theologia Platonica e il De Vita Coelitus Comparanda per quanto riguarda Marsilio Ficino e l’Heptaplus, le Conclusiones, la Oratio per Pico.

Partiamo dal De Vita e dalla Theologia Platonica, esaminando il concetto di magia espresso da Ficino. Secondo lui l’unico tipo di magia permessa è quella naturale, ovvero quella che sfrutta l’influsso astrale e planetario per modificare la realtà materiale e migliorarla: il cosmo è diviso in tre parti, collegate le une con le altre. La prima parte è la più nobile, quella che emana direttamente da Dio e che nella filosofia platonica corrisponde al mondo delle Idee: è il mondo dell’Intelletto, o Mente Angelica (o mondo sopraceleste); in esso risiedono le forme pure della realtà e gli angeli; la seconda parte è il mondo celeste, o Anima Mundi: in essa risiedono le potenze astrali e planetari, che discendono per mezzo di Luce dalle forme pure; la terza ed ultima parte è la Terra, o Corpus Mundi: le forme materiali corrispondenti delle Idee. Questa tripartizione dell’universo è applicabile anche all’Uomo perché egli è microcosmo del grande disegno divino: la Mens Angelica nell’Uomo corrisponde alla Mens, che è in grado di comunicare direttamente con la Mente di Dio attraverso l’Intelletto; il Corpus Mundi diventa nell’Uomo il Corpo, e l’Anima Mundi l’Anima, o Ratio. Essa, sia per quanto riguarda il cosmo che per quanto riguarda l’Uomo, funge da intermediaria fra i due poli opposti e pervade tutta la materia. Ficino individua un canale fra l’Anima e il Corpo, lo spiritus: si tratta, scrive il filosofo, di una sostanza impalpabile, ariosa; attraverso di essa promana l’influsso delle stelle ed è questo che il mago sfrutta per agire sulla realtà. I tre mondi, sopraceleste, celeste e terrestre sono interconnessi, perché le Idee del mondo superiore proiettano ombre di se stesse sulle stelle che poi diventano materia sulla Terra e l’uomo, in quanto microcosmo, svolge un ruolo centrale all’interno di questo raffinato meccanismo: egli è simile a Dio perché come lui è creatore, artista. Ficino suddivide le arti in una scala gerarchica: ci sono le arti domestiche, che aiutano a provvedere ai bisogni primari, quelle governative, che regolano l’ordinamento di una società; le arti musicali, matematiche, l’esplorazione delle cose della natura, la poesia e l’oratoria sono arti superiori, perché rivelano la partecipazione della Mens umana a quella divina. C’è, infine, la suprema forma d’arte, la magia: essa è la più grande di tutte, è l’apice del potenziale creativo dell’Uomo e la prova della sua natura divina perché permette di agire sulle forze che governano il Creato. Per essere iniziato alle pratiche magiche il magus deve prima compiere un percorso di redenzione, contemplando le Idee presenti nella Mente: quando l’anima è purificata, si ottiene la capacità di agire sul secondo livello di esistenza del cosmo, il mondo celeste. Così, se una forma sulla Terra si degrada, il mago può intervenire agendo sulla forza celeste che la governa. Quel che più conta però per Ficino, è il benessere fisico e mentale del mago stesso, che deve prima di tutto impiegare le arti apprese sulla propria anima. Come Dio ha creato l’uomo a propria immagine, così l’anima modella il corpo secondo la sua forma e lo utilizza per modificare la realtà attorno a sé attraverso l’arte magica. L’anima può anche trascendere il corpo elevandosi in un’estasi spirituale, un processo che le permette di esercitare un potere trasformante sull’intero cosmo o di indirizzare la propria influenza dal suo corpo ad un altro. La magia di Ficino quindi può essere rivolta verso se stessi (magia soggettiva) o verso la realtà materiale (magia transitiva): nel primo caso il mago attira lo spiritus mundi su di sé, unendolo al proprio per ottenere benefici mentali e fisici; nel secondo caso egli imprime al proprio spiritus l’influenza di un pianeta o di una stella e la proietta verso l’obiettivo che preferisce attraverso lo sguardo. Questo secondo tipo di magia apre scenari vagamente inquietanti: il mago sarebbe in grado, proiettando i diversi influssi, anche di prendere il controllo della mente altrui; per questo, spiega Ficino, la magia transitiva può essere usata solo da chi abbia il pieno controllo della magia soggettiva e una sufficiente preparazione spirituale.


L'uomo che voglia elevarsi e diventare mago deve essere umile e intraprendere un percorso di purificazione.
Earthbound, opera di Evelyn de Morgan.

La magia naturalis di Marsilio Ficino è una pratica quindi che sfrutta soltanto le potenzialità offerte dal secondo livello di realtà, il mondo celeste. Ad essa si possono accompagnare diversi metodi per attirare l’influsso stellare: certe piante e minerali sono associabili ad un tale pianeta e quindi sfruttabili per attirarne l’influsso; talismani, unguenti e polveri sono oggetti magici che per forma o materiale di costruzione hanno la capacità di concentrare su di sé lo spiritus di stelle e pianeti; c’è infine la musica, uno dei mezzi più potenti di magia. Per quanto riguarda i talismani Ficino chiarisce che, sebbene l’anima mundi sia presente ovunque, il mago può costruire luoghi e oggetti che ne concentrino l’influsso, le cosiddette figurae: la figura più efficace sarebbe la mundi figura, ovvero una rappresentazione geometrica che riproduca la perfetta armonia del cosmo; se ognuno ne tenesse una sempre con sé in modo da poterla contemplare ogni giorno avrebbe costantemente davanti agli occhi l’immagine unita e armoniosa dell’universo sovrapposta alla visione della realtà particolare. Ma ancora più perfetta sarebbe l’anima del mago se riuscisse a creare una figura di se stesso: l’armonia non sarebbe più qualcosa da contemplare all’esterno ma albergherebbe dentro di lui e la contemplazione non avrebbe bisogno di avvenire fuori dalla propria anima. Per quel che concerne la musica poi, Ficino sembra considerarla il mezzo più adatto ad attirare spiritus: la musica infatti è costituita da forme matematiche pure, a differenza dei talismani, che sono oggetti concreti, e si imprime nell’aria con un movimento continuo, ordinato e sequenziale, raggiungendo facilmente lo spiritus individuale. Inoltre, aggiungendo un testo alla melodia, il mago è sicuro che il suo contenuto arriverà direttamente alla Mens. Il canto orfico, così viene chiamato questo tipo particolare di musica, derivante dalla tradizione dei misteri orfici, implica l’invocazione di alcune divinità pagane: per Ficino esse non sono altro che forze celesti (mundana numina), entità intermediarie fra Dio e il mago, assolutamente inoffensive e tanto meno diaboliche.

Il mago ficiniano appare dunque come una figura pia, una sorta di mago-sacerdote che utilizza la propria arte esclusivamente per fini spirituali: egli non ricerca poteri straordinari, e non si spinge oltre i confini del secondo livello di realtà, limitandosi ad invocare le forze celesti per curare l’anima e il corpo suo e dei suoi pazienti (non bisogna dimenticare che Marsilio è figlio di un medico e ha studiato medicina lui stesso). Ben diversa appare l’arte magica elaborata da Pico della Mirandola: come si è già detto, Pico aveva un temperamento più esuberante del suo contemporaneo, un tratto del suo carattere derivante forse da una giovane età unita ad uno degli ingegni più brillanti del secolo. Sicuramente la sua preparazione in fatto di magia era più completa del suo contemporaneo, se si pensa che alla sola età di ventiquattro anni aveva già elaborato un complicato sistema filosofico fatto di cabala, magia orfica, magia naturale, filosofia patristica, ermetica e platonica e che le sue novecento tesi compaiono a pochi anni di distanza dalla Theologia di Ficino.


Il mago di Pico è molto più spericolato di quello di Ficino e si muove sul filo dell'accettabile, sperimentando forze ambigue e pericolose.
Cleric by yefumm, Deviantart.

Nei suoi scritti (Conclusiones, Oratio, Heptaplus) Pico unisce la magia naturale ficiniana al complesso sistema della cabala ebraica, che crede essere di gran lunga più efficace nel campo della magia perché permette di accedere alle potenze angeliche che governano il mondo celeste. Pico infatti ritiene che il mago debba spingersi oltre il secondo livello di realtà (l’Anima Mundi) per rivolgersi al mondo sopraceleste (la Mens Angelica): talismani e canti orfici da soli svolgono un’influenza superficiale sulla realtà, e non contribuiscono a migliorarla nella sostanza. Con l’aiuto della cabala ebraica invece il mago può attingere direttamente alla sfera delle Idee platoniche, ricevendo molto più potere: la sua azione sul mondo si fa determinante e il suo ruolo centrale, perché contribuisce a completare l’opera creatrice di Dio. Il mago pichiano, per quanto assomigli a quello ficiniano, è dotato di maggior audacia, perché prende le fila direttamente dal concetto che Pico elabora sulla natura umana nella sua celebre Oratio: l’uomo è dotato da Dio del libero arbitrio e può quindi scegliere di vivere in qualsiasi gradino della scala gerarchica esistenziale voglia; egli può decidere di elevarsi nella Mens Divina o di abbrutirsi nel Corpus. Questa abilità gli conferisce un immenso potere sul Cosmo, e lo rende simile a Dio, infatti quando l’uomo diventa magus acquista il dono di poter “sposare il mondo”, ovvero di conciliare gli opposti: l’umile col superiore, il basso con l’alto, il terreno con l’angelico. Il mago redime la realtà perché, avendo unito la propria anima con Dio vive in costante contemplazione delle Idee: può quindi riunire il concreto con l’Idea che lo governa. La chiave di questo processo risiede, dice Pico, nei simboli della cabala: i nomi che essa contiene e i simboli numerologici delle sefirot sono molto più potenti delle figurae ficiniane.

Pico suddivide la cabala in due branche: la cabala speculativa e la cabala practica. La prima serve per perfezionare l’anima e ripristinare nella Mens la conoscenza perduta di Dio e del Cosmo, la seconda è l’applicazione di tale conoscenza nelle opere di magia transitiva. Con il secondo tipo di cabala il mago invoca le dieci sefirot[1] e i daemones che regolano gli influssi celesti, i trentasei arcani dello zodiaco: qui l’operazione si fa estremamente delicata e si deve stare attenti perché se la preparazione non è sufficiente si può finire con l’invocare angeli malvagi. Nelle sfere sopracelesti infatti vivono potenze angeliche benefiche e, specularmente, potenze malvagie (Pico le chiama ultores): l’esperienza redentiva del mago deve quindi andare di pari passo alla sua pratica magica e consiste in un’ascesa attraverso le sfere; se fatta correttamente, le potenze positive di ogni livello di esistenza scacciano le loro corrispondenti negative. È proprio qui che le strade di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola si dividono: i due condividono l’intero apparato filosofico, concordano sul fatto che esista una verità in ogni filosofia, portata avanti nei secoli dalla prisca theologia e che essa faccia capo all’antico Egitto di Ermete Trismegisto. Sono entrambi convinti della centralità della figura di Cristo all’interno di questa cornice e dell’importanza della tradizione cristiana. Vedono l’uomo come microcosmo e il mago come supremo artista, ritenendo la pratica magica come un dono fatto da Dio a chi sa redimere la propria anima e reputano un dovere del mago il suo coinvolgimento nel mondo; credono che il mago, come Dio, debba amare le creature terrestri e operare per il loro bene e la loro purificazione. Ma il mago di Ficino è quasi una figura sacerdotale e si limita prudentemente ad invocare influssi stellari, non ritenendo saggio spingersi verso entità superiori. Il mago di Pico invece ritiene che la mediazione dell’Anima Mundi sia di poco effetto e che, per aver un maggiore impatto sul mondo ci si debba rivolgere direttamente alla sfera della Mens Angelica. È inoltre convinto che l’unica via per giungervi sia quella di fare ricorso alla cabala, prima la speculativa, per purificare l’anima, e poi la practica per usare la magia. Raggiunte le sfere superiori il mago si trova a confronto con le potenze angeliche, e deve stare attento, perché alcune di loro sono benevole ma altre tutt’altro: soltanto continuando un percorso di redenzione può sperare di salvarsi dagli influssi degli angeli cattivi. Bisogna però qui fare un’osservazione: Marsilio Ficino poteva anche apparire poco audace al temerario Pico, in continua combutta con angeli e demoni, ma va ricordato che Ficino era fermamente convinto dell’importanza rivestita dall’Anima Mundi all’interno della pratica magica. Secondo lui la mediazione dell’Anima Mundi era l’unico modo per fare della magia, la stessa natura mediana dell’Anima permetteva il contatto fra Mens Angelica e Corpus Mundi: la sua non era codardia, era solo che non credeva di aver bisogno di salire troppo in alto per prendere ciò che gli serviva.
(Continua...)


Testo originale a cura di Valentina Fatichenti.


[1] Le dieci sefirot corrispondono alle dieci gerarchie angeliche: ognuna di esse esiste nel mondo terreno ma è anche “a capo” di una classe di spiriti (o angeli) che governano la sfera celeste e quella terrestre.


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